Allorchè il gioco si fa duro e il traguardo si avvicina, fare i duri diventa una necessità. Se non, addirittura, una virtù. Lo ha palesato il Napoli a Lecce, al culmine di una partita introdotta da tensioni, fumogeni, sospensioni ma pure, fortunatamente, dai mazzi di rose e gli applausi in memoria di Graziano Fiorita, il fisioterapista dei salentini scomparso alla vigilia della tormentatissima trasferta di Bergamo.
Zero a uno, punizione di Raspadori. Pochi ma buoni, i suoi gol. Perso Lobotka per infortunio, la squadra di Conte ha smarrito la bussola: non, ma, la cazzimma che, fra una traversa di Gaspar e insidie vaganti, l’ha portata ad ogni modo oltre la monotona generosità della squadra avversaria. Si fronteggiavano la miglior difesa e il peggior attacco: è andata come la logica suggeriva. Di corto muso non è mai morto nessuno. Specialmente a primavera, in piena volata scudetto. Il Napoli ha dapprima controllato, in seguito ragionato, dunque sofferto. I cambi gli hanno offerto un filo di ossigeno. Attorno alla polvere sollevata da Krstovic e Pierotti rimane la lapide del risultato. Dal 5 dicembre, allorché beccò tre pere dalla Lazio in coppa, Conte Dracula ha potuto dedicarsi, esclusivamente, al campionato. E se ci sta uno che sa come regolarsi in casi del genere, è proprio lui.
Scarto minimo anche a San Siro: mani-comio di Valentini e rigore varista di Asllani in avvio. Dopodiché, avanti adagio. Testa e titolari già al Barça, l’Inter: ben dieci, i cambi di Inzaghino rispetto al Montjuïc. Unico superstite, Bisseck. Il Verona, quasi salvo, ci ha provato con troppo pudore. Salvo, in generale, i dribbling di Zalewski e i lanci di Asllani. Non, viceversa, i languori di Arnautovic. Era il classico sabato del villaggio. In ottica dell’Armageddon di martedì.
«La storia la scrive chi vince».
Allegri? No: Conte.
Image:Getty
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